BANCHETTO
MEDIOEVALE
Fra arte culinaria medievale e sapori di
cultura
Sul tema:
Valdarno
fra conflitti e rivalità
nel
Medioevo
A cura di :
Maurizio Baldecchi
INTRODUZIONE AL BANCHETTO
Il
banchetto medievale è il convivio per
eccellenza, ossia il luogo dove forti si manifestano i simboli del potere e
della nobiltà, dove si mostrano le proprie ricchezze, dove si stringono le
alleanze, dove si partecipa alla vita sociale, ma dove possono nascere odi e
conflitti.
Nel castello
di Campi, Mazzingo Tegrini, celebrò, con molti invitati, con giostre e
banchetti, la sua elevazione a cavaliere. Per far divertire i convitati, erano
presenti giocolieri, cantori e buffoni,
spesso facevano”brutti tiri” agli invitati. Durante il banchetto uno dei
giocolieri, sottrasse al cavaliere Uberti degli Infangati, il piatto ricolmo. A
quei tempi [1216] usava che nello stesso
piatto mangiassero due invitati ed il compagno degli Infangati che era il
cavaliere Buondelmonte dei Buondelmonti, si irritò per lo stupido scherzo. Ne
nacque un diverbio, al quale partecipò anche Oddo Arrighi dei Fifanti, e si mise
ad insultare l’Infangati, quest’ultimo
gli tirò il piatto. Ne nacque un tumulto, il banchetto ebbe fine anzi tempo, le tavole furono tolte
di mezzo, e il Buondelmonti eccecato dall’ira e dal vino ferì con una
coltellata al braccio l’Arrighi.
L’offesa e il ferimento richiedevano o vendetta o pacificacazione, col perdono scritto,
sanzionato con un bacio.
Nella
riunione che gli Arrighi organizzarono fu stabilito di spengere l’odio e
ristabilire la pace con un matrimonio fra le due famiglie: Buondelmonti e
Arrighi. Il Buondelmonti avrebbe sposato la nipote di Oddo Arrighi figlia di
Labertuccio Amidei. La pace fu fatta il contratto di fidanzamento venne esteso
con atto notarile. Il giuramento pubblico alle celebrazione delle nozze doveva
seguire di lì a poco. Il fidanzamento non piacque a Madonna Gualdrada, moglie
di Foreste dei Donati. Certa che sua figlia fosse bella, cercò di far
sciogliere la promessa di matrimonio, ed aspettò il Buondelmonte e gli disse: “
Sono veramente felice che abbiate gia scelto la vostra futura moglie, ma è
comunque un vero peccato…perché avevo pensato di darti mia figlia…” e gliela
mostrò. Il Buondelmonte fu fulminato dalla sua bellezza che rispose:” Sarei
veramente un ingrato a rifiutarla, visto che l’avete custodita per me e io
ancora non sono sposato!” e senza perder tempo, fece celebrare le nozze.
Quando gli
Amidei e gli Uberti, vennero a conoscenza dell’accaduto furono presi da tale
collera che l’unico modo per vendicarsi
fu quello di uccidere il Buondelmomte, la mattina di Pasqua. Questo omicidio divise Firenze, alcuni appoggiarono i Buondelmonti altri con gli
Amidei. Scoppiarono così conflitti in città.
Quando
Federico II, re di Napoli, decise di aumentare il potere in Toscana per
sferrare un attacco contro la
Chiesa , appoggiò la fazione degli Amedei che cacciarono i Buondelmonti:
così i primi si schierarono con l’imperatore, i fuggitivi con la Chiesa , i primi diventarono
Ghibellini i secondi divennero i Guelfi.
I banchetti importanti si componevano di numerosi
servizi, ognuno dei quali comportava un insieme di piatti diversi, che venivano
posti simultaneamente sulla tavola.
Ciascun convitato, poteva usufruire solamente dei piatti alla sua
portata. In tal modo, a seconda del posto che ognuno occupava, si operava una
selezione gerarchica delle vivande , più o meno raffinate.
La parte centrale della tavola era riservata agli
ospiti d’onore. Allontanandosi dai posti vicino agli ospiti d’onore il rango
gerarchico diminuiva, così come l’abbondanza delle vivande.
DANTE ALLA CORTE DEL RE ROBERTO
(Novella LXXI Sercambi)
Dante giunse alla corte di Napoli
vestito con neglicenza, come “soleano li poeti fare”. Era ora di pranzo e, a
causa del suo abbigliamento, fu messo in coda di tavola. Dato che aveva fame
mangiò lo stesso, ma appena terminato il pasto lasciò la città. Il re, confuso
per aver trattato male il grande poeta, gli inviò un messaggio e l’invitò
nuovamente a corte. Stavolta Dante si presentò a pranzo riccamente vestito, per
cui il re lo fece mettere in capo della prima mensa. Il servizio era appena
iniziato quando il poeta cominciò a roversciare cibi e vini sui suoi abiti. Al
re che, stupefatto, gli chiedeva i motivi del suo atteggiamento, rispose: “Santa
corona, io cognosco che quel grande onore ch’è ora fatto, avete fatto a’ panni
e pertanto io ho voluto che i panni godano le vivande aparecchiate. E che sia
vero, vi dico io non ho ora men di senno che allora quando prima ci fui, che in
coda di taula fui asettato, e questo fue perch’io ero malvestito. Et ora con
quel senno avea son ritornato ben vestito e m’avete fatto stare in capo di
taula.”
Solo alla fine del XVIII secolo la successione delle
portate diventa come la conosciamo, antipasti, primi (paste in brodo o
asciutte), secondi ( in salsa o umidi o torte salate), terzi ( arrosti), dolci e
frutta. In epoche precedenti lo svolgimento del pranzo era concepito in maniera
del tutto diversa, lontano dai nostri gusti. Lo zucchero, era considerato una spezia,
ed utilizzato come tale, di conseguenza, il contrasto dolce salato nella solita
pietanza era forte e si passava da piatti dolci a piatti salati con facilità.
Se prendiamo per esempio le ricette del Biancomangiare ( ricette dove tutti gli
ingredienti sono di colore bianco)
troviamo petti di pollo e riso, cotto nel latte di mandorle. Questa
ricetta non avrebbe nulla di strano per i nostri gusti se fosse stata condita
con il sale, invece, la troviamo condita con dello zucchero e quindi oggi,
improponibile.
I banchetti si aprivano con una colazione: gli invitati venivano accolti in una sala diversa
da quella da pranzo, stavano in piedi e veniva
loro offerto della frutta fresca
accompagnata a del vino dolce.
Entrando nella sala le tavole, ricoperte da tovaglie
erano quasi sempre disposte ad U e i convitati
occupavano il lato esterno per meglio godere degli spettacoli che
venivano proposti all’interno.
Prima di mettersi a tavola era regola lavarsi le mani,
come gesto simbolico, sopravvissuto nel
rito della celebrazione dell’eucarestia durante la messa ( anche fra i
mussulmani era rituale lavarsi le mani prima di mangiare ed a fine pasto [
Mille e una notte, Storia del piccolo Gobbo])
La tavola veniva coperta con la tovaglia: mangiare senza
tovaglia era segno di povertà o di penitenza. Il tovagliolo apparirà a partire
dal XIV secolo. Spesso fra l’apparecchiatura della tavola erano presenti degli acquamanili, dove si potevano lavare le
mani. In mancanza di questi per pulire mano e bocca si utilizzava la tovaglia.
Sempre nel Trecento compare la forchetta: nella
ricetta delle lasagne (seconda portata del primo servizio) viene consigliato di
mangiare con un bastoncino appuntito.
L’uso della forchetta cresce col difforndersi del
culto della pasta, e alla fine del XIV secolo doveva essere ormai di uso
quotidiano Visto che, questo utensile, viene citato dal Sacchetti in una sua
novella:
Noddo
d’Andrea grandissimo mangiatore che ingurgitava facilmente i cibi ancora caldi,
pregava sempre il Dio che, quando si trovava a mangiare a tagliere, le vivande
fossero roventi cosicché potesse divorare anche la parte del compagno. Un
giorno si trovò compagno di tavola con un tale, Giovanni Cascio, e furono
serviti sul loro tagliere maccheroni bollentissimi. Così mentre Giovanni aveva
ancora il primo boccone sulla forchetta, Noddo ne aveva già mangiati sei.
Allora Giovanni, per non lasciare mangiare la sua parte al compagno, inizio a
gettare la pasta al cane, tanta quanto Noddo ne mangiava. Il divoratore di maccheroni
provò a rimproverare il compagno, ma di fronte alla sua fermezza, per non
vedere sprecata tanta pasta, acconsentì a mangiare più lentamente.
Qui abbiamo parlato di classe ricca e nobili, il
popolo ovviamente mangiava in modo diverso, ce lo descrive un cuoco
dell’abbate, in una novella del Sermini (Mattano
da Siena).
In prima lui non è cittadino, ma nato ed allevato in
contado, e di poi è uso di panberare[1] la mattina due o tre
volte, e merendare, e poi cenare la sera il paperotto con cicerchiate e cavolate
riscaldate più volte, e acque pazze o rapucciate coll’aglio, empiendo la
minestra con lunghe fette di pane partite sul petto, e rammorsarle, insupparle
più volte, e dalle mani sue, quante sono onte, non saprebbe che farsene, uso a
forbille sul petto o a’ fianchi, per non imbrattare le bianche tovaglie e li
panni di dosso. Altri che quelli di villa spesso lo patirebbero, per l’uso che
ha preso di fare.
E’ uso a mangiare tutta la gran minestra prima che
boccone di carne egli assaggi; poi piglia a un tratto la carne e il soave[2] colle gran fette di
pane, e alle volte v’intigne tutte le dita con goggiolarsi sul petto; e del
leccare delle dita insavorate non dico; che pare ch’è succhi i fiedoni; e così
vorrebbe il forte aglione con capponi o fagiani o starne, come col vieto lardo
che usa il contado. E, se mangia porri, sempre dalle fronti si comincia
ammorsare col bon suppare nella salettiera l’ammorsato più volte.
COLAZIONE
La
colazione corrisponde al nostro aperitivo, serviva per intrattenere gli ospiti,
prima di andare a tavola. Venivano serviti frutta e vino dolce: Malvasia, vini
greco, vino di Cipro o di Gaza. Il tutto
veniva consumato in piedi.
PANE
Tu proverai sì come
sa di sale
lo pane altrui,
PARADISO, CANTO XVII,
58-59
PRIMO SERVIZIO
La
scelta della successione delle portate è effettuata scelta secondo i criteri
attuali: partiamo da tre piatti che oggi sarebbero considerati tre primi.
RIBOLLITA DI CASTELFRANCO
[….] che ciascuno del detto comune o che in esso
comune habiterà, il quale avrà terra propria
ovvero condota, sia tenuo fare
orto chiascuno anno del decto comune, quale orto debbia essere tanto che basti
et sia sofficiente della sua famiglia. Et orto s’intenda essere et sia quello
nel quale saranno et troverannosi a debiti tempi caoli, agli et cipolle
infino in numero di trecento per ciascuna di decte cose [….]
( Statuto di Castelfranco di Sopra, rubrica
XXXI, 1394)
Questa
zuppa di pane fatta con le tre verdure, che il cittadino di Castelfranco era
obbligato a seminare nel suo orto, arricchitta di fagioli ( ricordo che i
fagioli presenti nel Medioevo erano i fagioli con l’occhio, gli altri sono
arrivati dall’America ), ed un po’ di spezie e sale ed olio exstravergine di
olive.
La
zuppa avanzata non veniva gettata, ma veniva mangiata il giorno dopo, e veniva
nuovamente bollita, cioè la
RIBOLLITA.
LASAGNE
Questa
ricetta, trascritta da un manoscritto medioevale, presente nella biblioteca
nazionale di Parigi; non è la prima ricetta di lasagne ritrovata. Apicio nel IV secolo d.C. scrisse due ricette
di laganae romane, una cotta in acqua
bollente ed una cotta al forno e ciò le rende due prodotti ben distinti.
Troviamo altre ricette italiane una cotta nei giorni grassi in brodo di carne e
una nei giorni di magro cotta in latte
di mandorle.
Questa
ricetta che vi presento è l’unica che spiega come si fanno le lasagne – sfoglia
tirata a mano e poi tagliata a quadri nelle dimensioni di tre dita. E spiega di
utilizzare un utensile per mangiarla: Postea,
comede cum uno punctorio ligneo accipiendo ( Poi si mangiano prendendo con un bastoncino
di legno appuntito).
La
ricetta utilizza pasta lievitata a differenza della pasta fatta con farina ed
acqua, la pasta lievitata cotta in acqua bollente presenta una leggera
elasticità, e tale consistenza è molto simile a quella della pasta “ al dente”.
GNOCCHI DI FORMAGGIO FRESCO
Oggigiorno
la parola gnocchi sta ad indicare palline di pasta a base di patate o zucca.
Nel Medioevo non avevano ancora le patate, esse arriveranno in seguito dall’America. Firenze le patate
fino a tutto il ‘600 erano considerate solo ornamento per i giardini botanici;
fu Francesco Redi a presentare le patate fritte al Granduca e da allora piano
piano vennero sempre di più apprezzarte. Qui gli gnocchi sono polpettine di
farina, formaggio fresco e torli d’uovo. All’interno di questi gnocchi troviamo
pezzetti di prugne, cotte in acqua bollente, condite con prugne e gorgonzola.
Il
gorgonzola era chiamato col nome di “tracchino di Gorgonzola” cittadina, alle porta di Milano, oppure “
formaggio verde”. Conosciuto gia alla fine de VIII secolo.
Il
gorgonzola si caratterizza per la leggenda che verte intorno alla sua nascita:
“ Un giovane casaro, innamorato di una giovane
contadina, la sera mentre lavorava ad una cagliata, vide dalla finestra passare
il suo amore, e gli andò incontro. I due innamorati si appartarono e passarono tutta la notte insieme,
lasciando la cagliata a mezzo. Quando la
mattina di buon ora il giovane ritornò nel caseificio,vide che la cagliata aveva preso la muffa, per ciò, per
paura delle conseguenze, vi aggiunse il latte appena arrivato dalle stalle: nacque così un formaggio decisamente nuovo e
con un gusto ed odore forti. Il padrone
apprezzò enormente il risultato, ed ordinò di ripetere la produzione del
nuovo formaggio, in questo modo il giovane casaro, poteva uscire prima dal
lavoro ed incontrare la sua bella”.
SECONDO SERVIZIO
EGEMONIA DI FIRENZE
(torta d’agli)
Gli
agli sono stati un prodotto molto
importante durante tutto il medioevo, lo troviamo in molti piatti e salse, fino
ad una torta a base di agli. Nello Statuto comunale di Castelfranco di Sopra
(Ar) del 1394, Ccome già ricordato si obbligavano tutte le famiglie che
vivevano nel castello a seminare gli agli, oltre a cipolle e cavoli. Col
passare gli anni, le famiglie più agiate cominciarono a disprezzare tale
ingrediente, perché ritenuto un prodotto “villano”. Molti aneddoti esistono su
questo ingrediente, qui riportiamo parte di una novella da Le mille e una notte ( Storia del piccolo gobbo):
Il decimo giorno dei festeggiamenti per
il matrimonio, e verso sera, essendomi seduto a tavola, mi furono servite molte
qualità di vivande e d’intingoli: fra gli altri un manicararetto con
l’aglio,[….].Lo trovai tanto buono e delicato, che non toccai quasi nulla delle
altre vivande. Ma per disgrazia, quando mi alzai da tavola, mi contentai di
asciugarmi le mani, invece di lavarmele bene: era quella una trascuratezza, che
non mi era mai accaduta prima.
[….]
Terminate finalmente tutte queste
cerimonie, fummo condotti nella camera nunziale. Rimasti soli, mi avvicinai per
abbracciarla: ma lei, invece di corrispondere ai miei trasporti, mi respinse
violentemente e proruppe in grida spaventevoli; subito accorsero nella camera tutte
le dame dell’appartamento, e vollero sapere il motivo dei suoi clamori.
In quanto a me, preso da grande stupore, me n’ero rimasto immobile senza
neppure avere il coraggio di chiedere la ragione.
[…]
“Levatimi”, esclamò mia moglie “
levatemi da davanti agli occhi quest’uomo incivile!”
“ Ah! Signora” le dissi” in che posso
aver avuto la disgrazia d’incorrere nel vostro sdegno?”
“Voi siete un incivile”, mi rispose
furiosa, “ avete mangiato l’aglio, e non vi siete lavato le mani. Credete che
io possa sopportare un uomo così maleducato?”
“Stendetelo per terra”, soggiunse,
parlando alle dame, “ e mi si porti un nervo di bue:”
Quelle mi rovesciarono a terra e mi
tenevano [….] mia moglie [..] mi battè, finchè le mancarono le forze.
Allora disse alle dame:
“Pigliatelo, conducetelo dal
luogotenente criminale perché gli sia tagliato la mano, con la quale ha
mangiato l’intingolo con l’aglio”.
A queste parole eslamai:
“Gran Maometto! Ho il corpo rotto e
lacerato dalle bastonate, e per di più sono condannato ad avere la mano
tagliata! E perché? Per aver mangiato un intingolo con l’aglio ed essermi
dimenticato di lavarmi le mani! Quanto baccano, per un motivo così lieve
Maledetto l’intingolo coll’aglio! Maledetto sia il cuoco che lo ha preparato e
che me lo ha portato!”
Tutte le dame [….] ebbero pietà di me [….].
“ Sorella nostra cara e buona dama! [….]
Quest’uomo, per la verità, non sa vivere, e ignora il vostro grado ed i
riguardi che meritate: ma vi supplichiamo di perdonargli.”
“Io non sono soddisfatta” ripigliò quella
“ e voglio che impari a vivere e porti i
segni della sua inciviltà così che non gli capiti più di mangiare un intingolo
con l’aglio, senza poi lavarsi le mani.”
Esse non si arresero al suo rifiuto ; si
gettarono ai suoi piedi e baciandole la mano le dissero:
“ Buona signora, in nome di Maometto,
moderate il vostro sdegno e concedeteci la sua grazia!”
La dama non rispose, [….] uscì dalla
camera e tutte le dame la seguirono [….].
Stetti dieci giorni senza vedere
nessuno, fuorchè una vecchia schiava che mi veniva a portare da mangiare.
Amavo mia moglie, nonostante la sua
crudeltà, e la compatii.
[….]
un giorno entro mia moglie:
“Come vedete, sono molto buona nel
venire da voi dopo l’offesa che mi avete fatto; ma non mi posso risolvere a
riconciliarmi con voi, prima di avervi castigato come lo meritate per non
esservi lavate le mani dopo aver mangiato l’aglio”.
Dopo di ciò chiamò le donne, mi fece
legare e coricare per terra, poi prese un rasoi, ed ebbe la barbarie di
tagliarmi i quattro pollici.
[….]
“Ah! Signora”, dissi allora a mia
moglie, “ se mi capiterà di mangiare un intingolo con l’aglio, vi giuro che
invece di una volta mi laverò le mani cento venti volte con alcali, con la
cenere della stessa pianta e con il sapone”.
“ Bene, mi disse mia moglie, “ a questo
patto consento a dimenticare la vostra colpa e a vivere con voi”.
[….] vivemmo insieme, mia moglie ed io,
come se non avessi mai mangiato l’intingolo con l’aglio.
GUELFI E GHIBELLINI
(torta di re manfredi)
Questa
ricetta è contenuta in un manoscritto della Biblioteca di Nizza (Francia).
Chi
era re Manfredi?
Figlio
naturale dell’Imperatore Federico II, nel 1258 fu incoronato re dell’Italia
Meridionale. Il Papa Alessandro IV, volendo mantenere il controllo sul regno
dell’Italia Merdionale, paladino dei Ghibellini, lo scomunicò.
I
papi successivi, Urbano IV e Clemente IV, si allearono con Carlo d’Angiò,
fratello del re di Francia, che lo sconfisse nella Battaglia di Benevento
(1266).
Dante
lo incontra nel Purgatorio fra gli scomunicati e lo descrive così:
Biondo era e bello e di gentile aspetto,
Ma l’un de cigli un colpo avea diviso.
……………………
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso Benevento
sotto la guardia de la grave mora
Or le bagna la pioggia e move il vento
Di fuor del regno, quasi lungo ‘l Verde,
dov’è la trasmuto a lume spento
Manfredi
agli inizi del 1260, mandò un esercito di cavalieri a difendere Siena dagli
attacchi dei fiorentini. Nell'agosto dello stesso anno l’esercito fiorentino
partì verso Montalcino per portare soccorso alla città assediata dalle truppe
senesi. L’esercito fiorentino arrivato a Montespertoli, sulle sponde
dell’Arbia, ingannato e tradito da dei Ghibellini fiorentini infiltrati
nell’esercito, venne attaccato e
Lo strazioe ‘l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso
tal orazion fa far nel nostro tempio
Dante, Inferno, Canto X
[……] più di duemilacinquecento ne rimasono al
campo morti, e più di millecinquecento presi pur dè migliori del popolo di
Firenze di ciascuna casa [….]
Venuta in Firenze la novella della
sconfitta dolorosa, e tornando i miseri fuggiti di quella, si levò il pianto
d’uomini e di femmine in Firenze si grande, ch’andava in fino a cielo,
imperciocchè non avea niuna in Firenze piccola o grande, che non vi rimanesse uomo
morto o preso [….]
Villani, Cronaca, vol. 1 pag. 302
Manfredi,
diede l’ordine ai senesi di distruggere Firenze, e nella riunione ad Empoli,
fra i senesi e le grandi famiglie ghibelline, Farinata degli Uberti prese la
parola in difesa di Firenze,
“A ciò non fu’ io sol” disse “ né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
Fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto”
Dante, Inferno, canto X
Eccoci ora alla battaglia di
Benevento:
E vegendo il Re manfredi fatte le
schiere domandò della schiera quarta che gente erano, i quali comparivano molto
bene in arme e in cavalli e in arredi e sovransegne: fugli detto ch’erano la
parte guelfa usciti di Firenze e dell’altre terre di Toscana. Allora si dolse
Manfredi dicendo: ov’è l’aiuto ch’io ho dalla mia parte ghibellina ch’io ho
contanto servita, e messo in loro
cotanto tesoro! E disse quella gente ( cioè la schiera de’ guelfi) non posso
oggi perdere: e ciò venne a dire, che s’egli avesse vittoria sarebbe amico dei
Guelfi di Firenze, veggendoli si fedeli al loro signore e loro parte, e nemico
dei ghibellini.
[…..]
Manfredi rimasto con pochi, fece come
valente signore, che inanzi volle in battaglia morire, che fuggire con vergogna
[….].
GUELFI BIANCHI E GUELFI NERI
(Riso con seppie)
Questi
due colori con possono rievocare le due frazioni dei Guelfi, La frazione dei
Guelfi Bianchi e la frazione dei Guelfi Neri.
Dante
apparteneva alla frazione dei Guelfi Bianchi. Sarà la frazione sconfitta e per
la sua aparteneza verrà esiliato da Firenze nel 1302.
Dante
incontrerà Vanni Fucci nell’ Inferno nel canto XXIV, che gli dirà una profezia:
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
Ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetuosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto
[
Dapprima Pistoia si spopola dei Neri; poi Firenze muta i governanti e regime.
Marte (marchese Moroello Malaspina)
dalla Val di Magna ( Lunigiana) una folgore avvolta di folgore nuvole; e
una tempesta violenta e accanita si
combatterà sopra Campo Piaceno. E quella folgore gagliarda dispenderà la nebbia
così che ogni bianco ne sarà colpito.]
Gli
esuli Bianchi si allearono coi gli esuli ghibellini, e gli uni e gli altri si
ritrovarono nel Castello di Piantravigne e il Villani racconta:
Come i fiorentini
ebbono il castello di Piantravigne e più altre castella ch’aveano rubellate i
bianchi
Nella stanza del dettto assedio di
Pistoia si rubellò a’fiorentini il castello di Piantravigne in Valdarno, per
Carlino de’Pazzi di Valdarno, e in quello col detto Carlino si rinchiusono
de’migliori nuovi usciti bianchi e ghibellini di Firenze grandi [ nobili] e
popolani, e facendo grande guerra nel Valdarno: la qual cosa fu cagione
di levarsi l’oste da Pistoia, lasciando i fiorentini il terzo della loro gente
all’assedio di Serravalle in servigio de’Lucchesi, come detto avemo, e tutta
l’altra oste tornata in Firenze, sanza soggiorno n’andarono del mese di Giugno
in Valdarno e al detto castello di Piano, e a quello stettono e assediarono per
ventinove dì. Alla fine per tradimento del sopraddetto Carlino, e per moneta
che n’abbe, i Fiorentini ebbono il castello, onde molti vi furono morti e presi
pure de migliori usciti di Firenze. E ciò fatto, tornati a Firenze con questa
vittoria, sanza soggiorno andarono popolo e cavalieri di Firenze in Mugello
sopra i signori Ubaldini, i quali co’ bianchi e co’ ghibellini s’erano rubellati
al comune di Firenze, e guastarono i loro benidi qua dall’Alpe e di là. E
tornati in Firenze, la state medesima cavalcarono in Valdigreve sopra il
castello di Montagliari e di Montaguto, i quali avevano rubellati que’ della
casa de’ Gherardini, ch’erano di parte bianca, e quelle due castella
s’arrenderono a patti, salve le persone, al comune di Firenze, le quali il
comune di Firenze fece disfare. E nel detto anno ebbono i fiorentini gran
vittoria in ogni loro oste e cavalcata che fecero, benavventurosamente,
perseguitando in ogni parte gli usciti bianchi e’ghibellini con loro
distruzione. [G. Villani Cronica
8,LIII, ].
Dante,
di parte bianca, la scofitta non gli andò giù, facilmente perse tanti amici, la
sua vendetta non si fece attendere, il responsabile Carlino dei Pazzi, lo
sputtano per l’eternità, mettendolo dell’Inferno:
sappi ch’i’ fu’ Camiscion de’ Pazzi
e aspetto Carlin che mi scagioni.
(Inferno, XXXXII , v.68-69)
Dante
incontra Camicione dei Pazzi e aspetta Carlino dei Pazzi che lo scagioni, cioè
ha peccato più grave del suo ( tradimento della patria invece che dei
congiunti, secondo la scala di gravità dantesca), al cui confronto si sentirà
più solevato.
TERZO SERVIZIO
POPOLO MINUTO
CARESTIA
(torta ale erbe)
Questo
piatto di colore verde rappresenta l’erba dei campi abbandonati e devastati
dalle incursioni degli eserciti, dove la popolazione subiva violenze di ogni
genere, l’uovo in esso presente rappresenta la rinascita dalla distruzione.
Nel
535 l’imperatore romano d’oriente Giustignano decise la riconquista dell’Italia
e lo scontro fra Goti e Bizzantini fu violento. Negli anni 538 e 539 la città
di Firenze, Fiesole e Chiusi si trovano al centro della contesa e quindi le
popolazioni del Valdarno furono sottoposte al furore degli eserciti di
passaggio che ammazzavano distruggevano e depredavano ciò che trovavano. Questi
tragici momenti sono descritti in una celebre pagina di Procopio di Cesarea (
storico bizantino del VI secolo ):
L’anno (539) avanzava verso l’estate, e
già il grano cresceva spontaneo, non in tal quantità però come prima, ma assai
minore; poiché non essendo stato interrato nei solchi coll’aratro, né con la
mano dell’uomo, ma rimasto alla superficie, la terra non poteva fecondare che
una piccola parte. Né essendovi alcuno che lo mettesse, passata la maturità,
ricadevano giù e niente poi più ne nacque […]. Né meno visitati dalla fame
furono i Toscani; de’ quali, quanti abitavano i monti, macinando ghiande di
quercia come grano, ne faceano pane, che mangiavano. Ne avveniva naturalmente
che i più fossero colti di malattia di ogni sorta, salvo alcuni uscendovi salvi
[…]. Quale aspetto avessero ed in qual modo morissero, sendone stato io stesso
spettatore, vengo ora a dire. Tutti
divenivano emaciati e pallidi, e la carne loro mancando gli alimenti, secondo
l’antico adagio consumava se stesso, e la bile prendendo predominio sulle forze
del corpo dava a questo colore giallastro. Col progredir del male ogni umore
veniva meno in loro, la cute asciutta prendeva aspetto di cuoio e pareva come
aderisse alle ossa, ed il colore fosco cambiatosi in nero li faceva parere come
torce abbrustolite. Dal viso erano come stupefatti e come orribilmente
stranulati nello sguardo, Quali di essi morivano per inedia, quali per eccesso
di cibo, poiché essendo in spento tutto il color naturale delle interiora, se
mai alcuno li nutrisse a sazietà e non poco per volta,come si fa nei bambini
appena nati, non potevano non potevano già più essi digerire il cibo, tanto più
presto venivano a morte. Taluni furono che sotto la violenza della fame
mangiaronsi l’un l’altro […]. Ben molti travagliati da bisogno della fame, se
mai in qualche erba s’incontrassero, avi damente vi si
gettavan sopra, ed appuntante le ginocchia cercavan di estrarla dalla terra, ma
non riuscendo perché esausta era ogni loro forza, cadean morti su quell’erba e
sulle proprie mani. N’è v’era alcuno che li seppellisse, perché a dar sepoltura
niuno pensava; non eran però toccati da niun uccello dei molti che soglion
pascersi dei cadaveri, non essendovi nulla per questi, poiché come ho già
detto, tutte le carni la fame stessa aveva già consumato.
PRATOMAGNO E MAREMMA
(montone al riso)
Sulle
pendici del Pratomagno venivano a pascolare decine di migliaia di capi che
arrivavano dalla Maremma in primavera e ripartivano ai primi di settembre,
soltanto nel territorio di Pulicciano arrivavano migliaia di capi, le prime
destimonianze l’abbiamo negli statuti del suddetto paese nel 1476.
Le
pecore anziane che ormai andavano verso la fine dei loro giorni, non possiamo
pensare che venivano gettate via. Le masse più povere che la carne la
consumavano già di rado la cucinavano anche questa.
Questo
è un piatto di origine araba, che ancora viene fatto. Questa carne non è mai stata una carne
nobile, la pecora serviva per ottenere il latte per i la produzione del
formaggio e dei loro derivati, per la carne degli agnelli o per la produzione della
lana.
Nella
nostra cultura culinaria e difficile trovare alcuni piatti e modi di fare la
pecora, in alcune parti d’Italia viene ancora tramandata. Basta pensare ai
“rosticini” degli Abruzzi, o la pecora in umido della zona di Prato.
SOPPRUSO
(maile alla willa)
Dopo
l’anno mille, nel castello di Sofena ( vicino al luogo dove nel 1296 fu fondato
Castelfranco di Sopra), il conte Uberto di Soffena sposò la contessa Willa, che
organizzava nel suo interno banchetti e feste per i suoi invitati. I banchetti
abbondavano di carne di tutte le specie, e per avere una tavola così sempre
imbandita, mandava i suoi servitori a rastrellare i campi e le stalle per poter
accontentare sempre di più i suoi invitati.
I
poveri contadini erano andati più volte a chiedere la restituzione di quei
espropri che dovevano subire. Erano andati a parlanne anche ai vertici
eclesiastici. Più volte il vescovo aveva scriito al conte e alla contessa di
mettere a termine alle confisce dei beni dei poveri, ai bazzelli e alle tasse imposte
ingiustamente ai contadini, come pure ad impedire le angherie verso le vedove e
agli orfani, ma non dette nesun risultto a favore dei perseguitati.
Un
giorno alla contessa chiese al suo marito conte Uberto di Sofena, di farsi
procurare un bel maiale per farlo cucinare in porchetta dal cuoco.
Il
conte diede ordine ai suoi servitori di procure un bel maiale per il banchetto
del giorno dopo.
Essi andarono a giro per la campagna, videro un
bambino a pascolare un maile sotto una quercia:
“Bel bambino di chi è quel bel maile?”
“E’ il maile della mia mamma e mio!”
“Ora non più! E della contessa Willa e ti ringrazia di
averlo ingrasato ed allevato con cura.”
Presero
il maiale e lo portarono al castello. Il bambino ritorno da sua madre correndo
e piangendo e gli raccontò tutto. La
vedova disperata perché era l’unico bene che aveva, partì subito per Sofena e
chiese di poter essere messa a colluquio con la contessa.
Dovette
aspetare molto per essere portata alla sua presenza. La contadina postrandosi
ai piedi della sua signora gli fece la sua supplica:
“Oggi alcuni suoi servi, hanno portato via il mio
unico, bene, il porco che il mio giovane figlio custodiva per i nutrirsi per
l’inverno, giorni che non si trova niente, e che ora difficilmente potremo
sopravvivere il prossimo inverno, senza il cibo che avremo avuto da quel
maiale”
“Villana, come osi disturbarmi per questi motivi, il
porco non può essere il tuo, visto che si è ingrassato sulla mia terra e ha
mangiato le ghiande dei mie quercie. Tu penzi ad accumolare, il maggiare per
l’inverno, questo vuol dire che ora la tua dispensa è piena di vettovaglie, io
penzo ad dare a mangiare oggi ai miei ospiti. Te poi essere grata di aver
sfamato, i tuoi signori che ti danno l’uso del tereno e protezione. Ora
ringraziami e vai, prima che pensassi che mi vuoi derubare del mio maiale.”
La
contadina riprese la parola e conrobattè:
“ Mia Contessa Willa dei Conti Ubertini di Sofena,
visto che il porco è stato ingrassato sui vostri terreni e con le vostre
ghiande, gli chiederei che ci pagasse almeno il lavoro che abbiamo, sostenuto
per ingrassare il maiale per la vostra tavola”:
“ Donna ai proprio coraggio a chiedermi i soldi, per
una cosa mia, visto che hai ammesso di aver rubato le ghiande e calpestato la
la mia erba per mesi, ma visto che io amo i miei sudditi, ti farò se vuoi
annusare il profuno del mio arrosto uscire dalla cucina. Ora vai prima che i
commensali si impazientano.”
La conclusione del fatto la
riprendiamo dal Davinshon, Storia di
Firenze, (Firenze, Sansoni, vol. I pag. 454):
[….] ma la punizione nontardò molto, ha quanto ci
assicura il cardinale di Ostia. Mentre la castellana digeriva l’illecito
banchetto seduta sui bastioni del castello, si produsse una frana, ed ella fu
raccolta cadavere sfracellato. […]
QUARTO SEERVIZIO
LATTE DELLA MADONNA
Carlo
d’Angio vincitore a Benevento sulle truppe di Manfredi, in riconoscimento del
valido aiuto ottenuto dai Guelfi nella conquista della duplice corona dei regni
di Puglia e di Sicilia, volle dare al loro condottiero Guido Guerra dei Conti
Guidi un singolare attestato della sua benevolenza con un dono straordinario,
lasciando a lui stesso la scelta.
Dopo
una visione avuta in sogno (come rigerisce la leggenda) Guido Guerra si decide
a chiedere a Carlo parte di una preziosa Reliquia cha a quei tempi si venerava
nella Abbazia di San Dionigi in Parigi, sotto il tittolo di Sacro latte di
Maria Vergina. Tale reliquia, in forma di ormai sottile polverina biancastra
era stata ottenuta dal re di Francia Luigi IX il Santo ( fratello di Calro
d’Angiò) dall’ultimo imperatore di Costantinopoli, Baldovino di Courtenais.
Ottenuta
la reliqui Guidoguerra la portò a
Montevarchi facendo solenne consegna al Priore della Chiesa di San Lorenzo. Uno
splendido bassorilievo robbiano custodito nel Museo delle Arte Sacra della
Collegiata di Montevarchi ritrae la solenne scena della consegna.
Dante
incontrò Guido Guerra nel Canto XVI dell’inferno:
Questi, orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipellato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
Fece col senno assai e con la spada
DATTERI RIPINI
I
datteri, come le spezie erano molto presenti nelle cucine medioevali, questa
semplice ricetta, che ancora presente nella cucina araba, i dolci sono riservate per occasioni speciali, come
banchetti, o all’arrivo degli ospiti. I dolci simbolo di generosità e amicizia,
nelle case erano già pronti in modo da no farsi cogliere impreparati all’arrivo
improvviso di un visitatore ( quello che oggi succende offrendo un cioccolatino
o un caffè).
CAFFE’
Originario
dell’Etiopia e di altre regioni dell’Africa orientale, il caffè fu importato
nell’Arabia sud-occidentale fra XIII e XIV secolo. Qui si sviluppò la sua
coltivazione e si affermo l’uso di
preparare, con semi torrefatti, una bevanda che le tradizioni arabe fanno
risalire al Trecento, attribuendo la scoperta ad un pio personaggio delo Yemen
che inizialmente se ne sarebbe servito per prolungare le veglie mistiche. Il
caffè raggiunge poi l’Egitto e di qui si diffuse nell’impero turco verso
Oriente, fino all’India. Dalla seconda metà del ‘500 cominciò ad essere
importato in Europa, per iniziativa soprattutto dei mercanti veneziani.
Con
il successo della bevanda, nacquero nuove piantagione a Giava per mezzo degli
olandesi, nelle Antille per mezzo dei francesi e poi nelle colonie spagnole e
portoghesi nell’America centrale-meridionale.
MENU’
COLAZIONE
FRUTTA DI STAGIONE
CON MALVASIA O ZIBIBBO
PRIMO SERVIZIO
- MINESTRA DI CECI
- RIBOLITA DI CASTELFRANCO
- GNOCCHI DI PRUGNE
SECONDO SERVIZIO POLITICO
- EGEMONIA DI FIRENZE (torta agli agli)
- GUELFI E GHIBELLINI (torta di re Manfredi)
- GUELFI BIANCHI E GUELFI NERI
TERZO SERVIZIO POPOLO MINUTO
- CARESTIA (torta alle erbe )
- PRATOMAGNO E MAREMMA
- SOPPRUSO (maiale alla Willa)
QUARTO SERVIZIO
- LATTE DELLA MADONNA
2. DATTERI RIPIENI
CAFFE’
“beverei prima il veleno,
che un bichier che fosse pieno
dell’amaro e reo caffè”
( Francesco Redi)
Accompagnati con
Ippocrasso
Tutto questo
annaffiato con buon vino, senza essere “infinocchiati”
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